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GIOBBE: PERCHÈ IL DOLORE?
Chiesa SS. Trinità di Busca




L'attualità del libro di Giobbe, in un tempo in cui di fronte a tante sofferenze gli uomini si interrogano sul significato del dolore, diventa attualità dei dipinti che interpretano la realtà di questo uomo così tormentato e sofferente. Tra questi un dipinto piuttosto sconosciuto ma molto bello, che si trova nella cappella dei "filatoieri" della Chiesa della SS Trinità di Busca. I filatoieri nel dialetto del tempo erano i lavoratori della seta, operai e operaie delle filanda e filature dell'Ottocento, un lavoro di questi operai richiedeva molta pazienza e sacrificio per questo il sodalizio assunse il patrocinio di Giobbe, l'uomo dell'infinita pazienza e tipo dell'uomo sofferente. L'icona di S.Giobbe, è inserita nella cappella omonima della chiesa,



custodita da una magnifica cancellata del 1765 con l'immagine del santo patrono. Il dipinto, al di sopra dell'altare, è di alto livello artistico e comunicativo, opera di autore ignoto che si inquadra - per la composizione spaziale e diagonale per il forte luminismo di origine lombarda - nella produzione settecentesca piemontese. Su uno sfondo architettonico diroccato le cui travi disegnano delle croci, appare una donna, tiene il braccio alzato in un gesto accusatorio nei confronti di un uomo sofferente, dal volto mite e dall'atteggiamento umile. Giobbe abbandonato da tutti, in un dolore totale, per la sua perseveranza nella fede viene sbeffeggiato dalla moglie, che lo invita a maledire Dio per una vita senza senso e ad anticipare la sua morte. La luce illumina violentemente la donna col braccio alzato in segno di condanna dinanzi al povero uomo colpito da lebbra che, anch'egli illuminato dalla luce, giace abbandonato sul suo letamaio ed risponde alla donna: "Se da Dio accettiamo il bene perchè non dovremmo accettare il male?".

Il libro di Giobbe fa parte dei libri sapienziali della Bibbia. È un'antica storia popolare del secondo millennio a.C. con una redazione definitiva composta in Giudea verso il 575 a.C., un racconto trasformato quasi in una tragedia greca, per offrire agli esiliati un tentativo di risposta al perchè della loro terribile sorte. Giobbe prototipo di ogni sofferente" è un uomo laborioso e religioso, caritatevole ed ospitale, giusto e integro, stimato e riverito, ricco e potente. Crede nell'unico Dio, che gli assicura felicità, tranquillità, buona reputazione e motivi di speranza. Abita ad Uz con campi e bestiame, servi e serve, figli e figlie. Ma Satana, principe degli invidiosi, si presenta due volte davanti a Dio, mettendo in dubbio l'integrità di Giobbe e chiedendogli il permesso di danneggiarlo per verificare se egli è davvero così irreprensibile e fedele. Il satana, autorizzato a sondare la fede di Giobbe, lo aggredisce ripetutamente. Improvvisamente, le catastrofi sconvolgono la vita dell'uomo: egli perde tutti i suoi beni materiali, i suoi figli uccisi, il suo corpo si ricopre di piaghe, il disprezzo lo circonda. Giobbe ancora fedele, grida il suo dolore e la sua disperazione a Dio: "perché Dio mi calpesta così, e lascia invece nel benessere i rei e gli empi?" Troviamo nel libro di Giobbe le domande dell'uomo contemporaneo: Perchè Dio permette il male? Perché il dolore innocente e la prosperità dei malvagi? Perché le catastrofi colpiscono tanti innocenti? Perché tanto male nella storia? Perché la morte? Perché il silenzio di Dio? Perchè Dio non ci soccorre nel dolore?
Nella sua angoscia, Giobbe auspica, un Redentore, un Go'el per gli uomini, uno che "ponga la sua mano su Dio e sull'uomo" (9,33), che faccia cioè da ponte tra di essi, che ci permetta di "vedere Dio, noi stessi, con i nostri occhi, non da stranieri" (19,27). Il Messia, il Cristo profeticamente intuito da Giobbe.

Giobbe, colpito dalle più tremende disgrazie, è visitato da tre amici, che invano riescono a consolarlo con le loro aride dissertazioni teologiche. Essi, insinuano a Giobbe che le disgrazie che lo hanno colpito sono il castigo di colpe gravi da lui commesse. Presso gli ebrei nel periodo dell'esilio babilonese, vigeva la teoria della retribuzione, la convinzione che il malvagio venisse giustamente punito con il dolore o la perdita di beni materiali, come effetto immediato, quasi meccanico, delle sue cattive azioni mentre il buono, che agiva bene, veniva subito premiato con l'abbondanza e la fecondità. Giobbe di fronte alle affermazioni accusatorie degli amici, in due monologhi si dichiara innocente, non accetta la teoria della retribuzione, grida a Dio e, come il profeta Geremia (20,7ss) maledice il giorno della sua nascita, accusa Dio di essere ingiusto con gli uomini, sordo al loro grido di aiuto e gli chiede di rivelarsi. Dio interviene, condannando come stolti (42,7-8) gli amici dalla religiosità fredda, disattenta all'uomo, dalla religione del "do ut des", del fare per la ricompensa. Dio risponde, con contenuto sapienziale, invitando Giobbe a considerare la sua bontà nella creazione, a uscire per contemplare orizzonti più vasti. Il libro di Giobbe anticipa quanto dice Gesù, il quale ricorda che se Dio pensa e provvede agli uccelli del cielo e ai gigli dei campi (Mt 6,25-30), e vigila sulla sorte dei viventi (Mt 10,29-31), tanto più ha a cuore il destino dell'essere umano.

Di fronte alla rivelazione di Dio, Giobbe (Gb 40,4-5; 42,2-6) risponde riconoscendo la sua limitatezza e riconoscendo, nella contemplazione, il manifestarsi di Dio ed esclama "Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono". Giobbe ha così "conosciuto" il Signore del mondo: Giobbe ha capito che Dio è amore, che è sceso per venire accanto a lui, per sedersi al suo fianco sul suo mucchio di cenere, sul letamaio in cui giace. La "cenere", che nel prologo era il luogo della sofferenza, diventa ora il luogo della conversione: il dolore è diventato il luogo privilegiato dell'incontro con Dio stesso. Giobbe ha sperimentato cioè la presenza di Dio al suo fianco, nel dolore: è già l'esperienza del "Dio-con-noi", l'"Emmanuele" (Mt 1,23), che vedrà la sua massima esplicitazione nell'incarnazione, in Gesù. Giobbe anticipa Gesù Cristo innocente, maltrattato, sofferente, crocifisso, risorto e intercessore presso il Padre.
Il rapporto tra Giobbe e Gesù è evidenziato anche nell'arte antica. I cristiani dei primi secoli, infatti, raffigurano spesso Giobbe con sembianze giovanili e rassomiglianti a Gesù. Nella cattedrale gotica di Chartres un artista rappresenta Gesù seduto sopra un mucchio di sterco: Egli ha condiviso l'abbassamento, l'umiliazione, lo sconcerto e la sofferenza di Giobbe. Il grande mistero non è il perché del dolore, ma come Dio ci abbia amati tanto da farsi uno di noi, da soffrire con noi, da morire con noi, per farci suoi figli, partecipi della sua stessa vita (Rm 8,17). Il dolore, la malattia non sono perciò una "punizione", ma fanno parte dell'ordine biologico, del nostro essere creature, una condizione che Dio stesso ha voluto assumere.

Come diceva il poeta francese Paul Claudel "Dio non è venuto a spiegare la sofferenza è venuto a riempirla della sua presenza" E Hans Küng osservava che "Dio non ci protegge da ogni sofferenza, ma ci sostiene in ogni sofferenza"

Mirella Lovisolo



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